

sterla. In base ai catasti di metà Trecento è possibile fare un piccolo cen-
simento: oltre ai già ricordati, nel quartiere di Porta Nuova vi erano il
«furnus Porte Nove», pubblico, e uno privato in una casa degli Ainar-
di, entrambi nella parrocchia di Santa Maria di Piazza; nel quartiere di
Porta Pusterla vi era il forno con pertinenze dei Porcelli; in Porta Do-
ranea c’era il forno del mercato, un forno dei Pogei vicino alla porta
Pa-
lacii
e un altro nei pressi della confratria del ponte di Po, nella parroc-
chia di San Pietro
curteducis
. In Porta Marmorea infine i Baracchi e i
Grassi denunciavano un forno in comproprietà nella parrocchia di San
Tommaso.
I Tor i ne s i e l a c i t t à .
È possibile tentare di cogliere il rapporto che esisteva tra la città e
gli uomini che vi risiedevano analizzando le norme che la comunità si
diede per disciplinare lo sviluppo urbano e la convivenza nel centro abi-
tato. In quest’ambito Torino non si differenziava dalle altre città pie-
montesi, anzi la normativa risulta in generale più semplificata.
Gli statuti comunali vennero riordinati nel 1360 in occasione del pas-
saggio della città sotto il dominio diretto di Amedeo VI, ma rispecchia-
no in parte provvedimenti già in vigore nel
xiii
secolo; la stessa man-
canza di suddivisione per materie indica nel documento un impianto più
antico. Delle 331 rubriche che compongono il testo statutario, un nu-
mero esiguo riguarda esplicitamente lo spazio urbano e la sua gestione;
del resto non erano neppure previste magistrature specifiche per il con-
trollo dell’attività edilizia, come invece avveniva altrove
27
.
La preoccupazione maggiore che assillava i responsabili della comu-
nità era, come spesso accadeva, il mantenimento di condizioni igieniche
accettabili, per limitare il rischio di epidemie. Molte norme ricordava-
no il divieto di abbandonare letame, paglia, rifiuti domestici e immon-
dizie di ogni genere nel mercato e nelle vie pubbliche lastricate. I ma-
cellai non dovevano sventrare né spargere il sangue nel macello, mentre
conciatori, tintori e pellai non potevano gettare gli scarti della lavora-
zione nelle vie pubbliche o nel canale che fluiva per la città. Si cercava
di mantenere un certo livello di pulizia ordinando anche di tenere co-
perti i fossi di scolo delle latrine nelle vie pubbliche, provvedimento che
tamponava più che risolvere il problema di una adeguata struttura fo-
gnaria. Del resto non sembra che i cittadini si preoccupassero molto di
La città e il suo territorio
17
27
f. panero
,
Gli statuti urbanistici medievali di Alba
, in «Bollettino della Società di Studi Sto-
rici, Archeologici e Artistici della Provincia di Cuneo»,
lxxii
(1975), pp. 5-39.