

le cose si mettessero male e che Giovanni ci avrebbe rimesso la testa: in
quel caso la prigionia tutto sommato sopportabile cui era stato sottopo-
sto nella sala del castello, con tutte le spese pagate dal principe di Pie-
monte anche per il suo seguito rimasto all’osteria del Cappello, avrebbe
assunto una tinta alquanto più sinistra
12
.
Quella di prigione era in effetti una delle funzioni più importanti
svolte dal castello e lo sarebbe rimasta fino all’ultimo: vi erano tradotti
detenuti in attesa di giudizio provenienti da tutto il Piemonte, la cui de-
tenzione si prolungava talvolta per molti mesi, anche se in qualche caso
gli arresti potevano ridursi all’obbligo di non lasciare la città e di pre-
sentarsi al castello ogni giorno. Un inventario del 1433 registrava «in
introytu porte castri compedites quatuor ferri et unum collare ferri», e
difficilmente poteva sfuggire la funzione simbolica di questo apparato
punitivo collocato bene in vista proprio sul portone della fortezza
13
. Il
castello, che in qualche occasione, come i soggiorni torinesi di Iolanda,
diventava il palcoscenico per sontuosi spettacoli e feste cortigiane, nel-
la vita di ogni giorno incarnava dunque l’autorità del principe in una
forma ben più minacciosa; e questa sua prerogativa, confortata senza
dubbio dalle bocche delle bombarde puntate verso la città, concorreva
a farne la pedina centrale nel controllo di Torino da parte della dinastia.
Chi occupava il castello era padrone della città, come appare con asso-
luta evidenza nei momenti di crisi così frequenti nel secondo Quattro-
cento: ad esempio nell’agosto 1476, quando, alla notizia della prigionia
della duchessa Iolanda, Filippo Senza Terra venne a Torino per farsi
giurare fedeltà dai Tre Stati, sotto gli occhi preoccupati degli amba-
sciatori milanesi.
Alla venuta del principe il presidente del Consiglio cismontano An-
toine Champion «se era reducto in questa rocha per parere de li altri de
Consiglio per respecto al sigillo che luy tene, adciò non gli fosse tolto»,
come scriveva al duca Galeazzo Maria Sforza il suo ambasciatore a To-
rino; e la «rocha» per un momento era stata difesa, se qualche giorno
dopo un altro ambasciatore, questa volta gonzaghesco, confermava che
«Filipo monsignore è a Turino et a l’intrata ch’el fece non li fu facto re-
sistencia salvo el chastelano che ne fece un poco,
nichilominus
ogni co-
sa s’è adapta presto». Caduto il castello, forse più presto di quanto non
si fosse sperato, il Consiglio cismontano abbandonò immediatamente
La vita e le strutture politiche nel quadro della bipolarità signore-comune
561
12
f. gabotto
,
La politica di Amedeo VIII in Italia dal 1431 al 1435 nei documenti dell’Archivio
di Stato di Torino
, in «BSBS»,
xx
(1916), in particolare pp. 299 sg., 326.
13
CCT, rot. 83. Per la funzione di prigione svolta dal castello cfr.
i. soffietti
(a cura di)
,
Ver-
bali del «Consilium cum domino residens» del ducato di Savoia (1512-1532)
, Milano 1971, ad esem-
pio pp. 196, 223, 227, 235; PD 213, f. 11; ASCT,
Ordinati
, 79, f. 79.