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Parte seconda La preminenza sulle comunità del Piemonte (1418-1536)
zione; precisa la necessità di provvedere alla imbalsamazione del cada-
vere in vista del trasferimento, passato un anno dal decesso, nella cap-
pella della Pietà e Resurrezione di nostro signore Gesù Cristo apposita-
mente fondata nel nuovo duomo di Torino: cadavere a cui dovrà essere
tolto il cuore da deporre insieme alle ceneri del fratello, quale attesta-
zione di «verus amor fraternus». Le preoccupazioni liturgiche e rituali
non sono disgiunte da decisioni denotanti larghezza e generosità verso
i poveri di Torino e Vinovo, oltre che di Rivalba e Cinzano, «duo ca-
stella» che il cardinale aveva acquistato, insieme con due aziende agra-
rie, attraverso i cospicui (e dichiarati) guadagni ricavati da investimen-
ti nell’allevamento del bestiame e in altre imprecisate, e lecite, attività.
Domenico della Rovere si rivelava un oculato curatore così del pro-
prio patrimonio, come della propria fortuna ecclesiastica: l’uno e l’altra
destinati alla sua famiglia di origine. Il patrimonio andrà a suo fratello
Martino, alla cui morte si trasmetterà per metà a Stefano e per l’altra
metà a Giovanni Giacomo e a Giacomo Battista, figli del fu Francesco.
La fortuna ecclesiastica si trasferirà invece a Giovanni Ludovico già elet-
to alla sede episcopale di Torino, alla quale il testatore dichiara di ri-
nunciare; Giovanni Ludovico riceverà anche i «bona mobilia quae per-
tineant ad cultum divinum» quali «breviaria, missalia, calices, libri, re-
liquiaria et alia ornamenta ecclesiastica», che, dopo la sua morte,
dovranno ritornare agli eredi della «domus» della Rovere. Insomma, il
testamento del cardinale di San Clemente risulta un’ordinata esposizio-
ne di preoccupazioni assai terrene, in occasione di un trapasso imminen-
te e certo non inatteso. I molti enti ecclesiastici ricordati appaiono iscrit-
ti in un calcolato disegno volto a celebrare un’affermazione terrena: un
«successo» che non viene esibito, bensì implicitamente e lucidamente ri-
chiamato quasi in ogni riga. Essi hanno ricevuto o stanno per ricevere
benefici e donativi dal prelato: in cambio rendano le preghiere e i riti che
il morituro chiede loro, perché preghiere e riti rinnovino la memoria di
lui – e, di conseguenza, della sua stirpe –, più ancora che lo accompa-
gnino nel regno dei morti e lo aiutino a raggiungere la salvezza eterna.
Dal testamento le preoccupazioni per l’aldilà sono veramente sullo
sfondo, mentre emerge la lucida consapevolezza delle «cose» che posi-
tivamente occorre fare in questo mondo. A chi rimane nel mondo Do-
menico della Rovere lascia i frutti di quanto è riuscito a realizzare nel
corso della vita: realizzare per sé, per la propria stirpe, per le proprie
chiese. Lascia anche il suo perenne ricordo, fissato materialmente nel-
le sue opere edilizie, ecclesiastiche e civili, e nelle epigrafi scolpite sul
marmo dei sepolcri romano e torinese, e rinnovato ogni volta che i chie-
rici, i frati e le monache reciteranno preghiere e celebreranno culti in