

sua memoria, e quando i poveri godranno delle sue largizioni. È così at-
tento alla realtà – che sta lasciando in modo definitivo – da preoccu-
parsi delle condizioni demografico-ambientali di Corneto, affinché le
somme da lui destinate alla chiesa di quella città, «si dicta civitas Cor-
netana ad nihilum redigeretur sive fieret inhabitabilis propter intem-
periem aeris», vengano ridistribuite alla prossima chiesa e ai canonici
di Montefiascone.
Che i progetti così umani del nobile-prelato abbiano avuto un’effet-
tiva realizzazione, è altro discorso. Rimane il fatto che Domenico della
Rovere pone le basi per una sorta di dinastizzazione del vertice della
Chiesa torinese: a lui succederà nel 1501 – come abbiamo visto – il ni-
pote Giovanni Ludovico, che a sua volta avrà come successore il nipo-
te Giovanni Francesco; il discorso potrebbe continuare, al di là dei li-
miti cronologici del presente contributo, con Antonio, vicario generale
del cardinale Innocenzo Cibo, e con Girolamo, arcivescovo torinese dal
1564 al 1582. Per un secolo, dunque, quanto avevano seminato i cardi-
nali Cristoforo e Domenico della Rovere aveva dato frutti abbondanti:
in particolare Domenico aveva capito che l’episcopato torinese avrebbe
potuto essere la sede privilegiata per le carriere dei membri ecclesiasti-
ci della sua stirpe. Per questo, credo, egli impegnò grandi ricchezze per
l’edificazione del duomo nuovo, scegliendo in esso il luogo della defini-
tiva inumazione del suo corpo, benché privato del cuore che avrebbe do-
vuto rimanere in Roma al fianco dei resti del fratello Cristoforo, il ve-
ro iniziatore delle fortune prelatizie dei della Rovere torinesi.
Per questo attraverso il duomo nuovo egli introdusse una qualità ar-
chitettonica e decorativa affatto inusitata in Torino. Per questo nel pro-
prio testamento affidò al capitolo cattedrale, ai conventi mendicanti, ai
monasteri femminili e agli enti religiosi della città e di tutta la diocesi
di Torino un vasto impegno liturgico per celebrare la sua memoria, stret-
tamente collegata alla passione e resurrezione di Gesù Cristo, alle sue
cinque piaghe: una memoria che aveva un prezzo, affatto slegata da ten-
sioni e volontà pauperistiche. La fondazione della cappellania nel duo-
mo comportava la «ordinazione» di 1000 ducati d’oro; le messe anni-
versarie di 2 ducati «de carlinis» per ogni chiesa; le preghiere delle mo-
nache di 5 carlini, e così via. Vivo o morto, il nobile-prelato deve essere
considerato, direi persino celebrato, nella sua grandezza: Torino e la sua
diocesi sono una delle aree prescelte per tale memoria celebrativa.
Il cardinale di San Clemente realizza dunque con la sede episcopale
torinese, e con la città in cui i propri antenati erano aristocraticamente
emersi, uno scambio «strumentale» assai efficace. Egli dona «cose» bel-
le, poiché il bello – in comunione con un alto ideale di classicità – è con-
Le istituzioni ecclesiastiche e la vita religiosa
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