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Il servizio delle disinfezioni in Torino alla fine del 1500

G

ià la semplice enunciazione del titolo su esteso

può arrecare una certa meraviglia. Siamo così

abituati a credere che i servizi delle pubbliche disin­

fezioni, opportunamente organizzati e funzionanti

con precise e sicure disposizioni regolamentari, siano

cosa tutt'affatto recente nella storia della profilassi

delle malattie infettive che ci sembra quasi anacro­

nistico il concetto che, nel 1500, già si avessero avute

norme praticamente efficaci nella tecnica delle disin­

fezioni.

Per i più, le disinfezioni, nei secoli XVI, XVII

ed anche nei successivi XVIII e nei primi due terzi

del XIX, sono o assolutamente distruggitrici o pue­

rilmente inefficaci; attributi che possono essere enu­

merati con due parole: fiamma e suffumigi.

I

tempi scusavano l’eccesso o l’insufficienza delle

misure adottate e la letteratura e la storia della me­

dicina tramandarono soltanto le pratiche maggior­

mente suggestive.

Gli scrittori ed i ricercatori degli antichi docu­

menti d’archivio furono anzitutto colpiti dalla seve­

rità draconiana, colla quale venivano trattate cose

e persone in tempo di peste e ne studiarono le ap­

posite «gride

»

a documentazione delle eccezionali

misure.

L’Abba in

Un episodio della peste del 1600,

nel

quale ricorda come ne scampasse la repubblica di

Noli, trascrive una di tali «gride » la quale così

recita: «che non sia persona alcuna, che ardisca,

ritrovando qualunque robbe, vesti et altro che po­

tesse apportar contagio, maneggiare, toccare in modo

alcuno esse robbe, vesti et altro sotto pena della vita.

Ma ritrovando dette robbe, debbono denuntiarlo

subito al Magistrato di Sanità di questa città, quale

harà di farle abbrugiare. Avvertendo ognuno che se

si venirà in cognitione che alcuno habbia trovato o

presoo ricevuto simili robbe, vesti et altro come sopra,

si faranno abbrugiare loro con tutte le sue robbe e

case senza remissione alcuna.

«Se ne fa la presente pubblica grida affinchè non

possa alcuno pretendere ingnoranza ».

Nè diversamente usavasi in altri luoghi. Non è

chi non ricordi il ritorno a Milano di Renzo Trama­

glino, avviato a cercarvi Lucia, in una soffocante

giornata dell’agosto del 1630. Al suo entrare in città

egli vide che da un certo punto del terrapieno «s’al­

zava una colonna di fumo oscuro e denso, che, sa­

lendo, s’allargava e s'avvolgeva in ampi globi, per­

dendosi nell aria immobile e bigia. Erano vestiti,

letti, e altre masserizie infette, che si bruciavano e

di tali tristi fiammate se ne faceva di continuo, non

lì soltanto, ma in varie parti delle mura ».

Talora erano interi caseggiati che si davano alle

fiamme e non soltanto le masserizie, come ne accerta

una lettera del 18 settembre 1630, mandata dal vice

Rettore Francesco De Magistri all’ufficio di Sanità

di Noli. (Abba, loco citato).

In essa, dopo aver dato ragguaglio sul dilagare

della peste al Borgo di Finale, informa che... «questa

sera di notte daranno fuochi a due caroggi (vicoli),

il caroggio delli Hebrei e quello delli Vilieri e non

levano robe nessune da detti caroggi, ma il tutto

abbrugiano ».

Altrove, pur consentendosi di abbruciare i ve­

stiti e gli oggetti letterecci, si presumeva di disinfet­

tare le case coi vapori più o meno acri, fatti svilup­

pare da varie miscele, di cui il medico torinese

Bartolomeo Silvio, che si trovò negli sbaragli della

peste del 1599, ci ha tramandata la precisa ricetta:

«Solfara, rubli due; Salnitro, rubli due; Arsenico

cristallino, rublo uno e mezzo; Rasa di pino, rubli

due e mezzo.

«Si faranno pestare il salnitro e l’arsenico, poi

si farà fondere la rasa in una caldara e liquefatta

se gli aggiungerà prima il solfara, che parimenti si

liqueferà, poi si metterà il salnitro, mescolando ogni

cosa con un bastone, finalmente se gli aggiungerà

l’arsenico a poco a poco e vedendosi il tutto ben incor­

porato si metterà sopra carta bagnata, stesa in tavole

a ciò si raffreddi. Di questa composizione si mette­

ranno 4 onde ridutte in polvere in stanza ordinaria;

più o meno in proporzione della stanza, avvertendo

che non trovandosi arsenico servirà l’antimonio nella

stessa quantità » (Abba

1

. c.).

Alle persone sospette di contagio si usava un

trattamento pressoché feroce. Esse venivano chiuse

incasa, inchiodandonegli usci, oppure nei lazzaretti e,

se sorprese fuori, erano sottoposte a tortura, la cui

abbominevole macchina si rizzava nei vari quartieri

della città, affinchè i deputati d’ogni quartiere, mu­

niti d’ogni facoltà più arbitraria, potessero farla

applicare immediatamente a chiunque paresse me­

ritevole di pena.

Chiuse

vie d’accesso agli abitati con barriere

«rastelh », si delegava una guardia armata per impe­

dire ai sopravvenienti di

penetrarvi,

se

non

muniti di

«bulletta » (certificato di sanità) ed ai cittadini

di

uscirne. I soldati avevano, spesso, la consegna che

«trovando persona alcuna fuori di essi (rastelli),

di

subito amasarla »(Abba L c.).

Orbene,

se fu

possibile a qualche piccola d ttà iso­

larsi del tu tto ed evitare il contagio, abbruciando ine­

sorabilmente ogni cosa, che potesse parere di prove­

nienza sospetta, e fucilando spietatamente d ii

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