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UN MERCATO SENTIMENTALE: IL

«

BALON

»

tempo,

dove il falegname, oltre che la sua lena,

pareva

vi mettesse anche l’albero intiero.

E vi sono anche gli oggetti-ricordo di alabastro,

di madreperla, di olivo, di vetro, ingialliti o infoschiti

dal tempo; e ognuno, se non è questo sabato o questa

domenica, sarà per un’altra volta, ma il suo amatore

10 troverà. Oh mistici idillii fra le cose morte e le

persone vive o illudentisi di vivere!

In un altro, chiamiamolo banco, vi ha qualcosa

che vorrebbe essere la traduzione tangibile di un

sogno millenare: un congegno di ruote e di contrap­

pesi, rosso di ruggine, vorrebbe essere un «moto

perpetuo ». Galileo e Newton, ombre onnipresenti,

guardano benigne. Il curioso profano sogghigna.

Il

bancherottolo vicino ha la specialità dei pezzi

di ricambio. Qui gli inventori in gestazione vengono

a cercare rodelle, fresatrici, utensili, ruote mordenti,

e quant'altro può servire a tradurre in atto il loro

sogno. Sogno che molte volte, a contatto colla dura

realtà tangibile si frantuma, e con lui un’anima.

Un altro rigattiere pare un emporio di utensili

per i vari mestieri. La nomenclatura può sbizzarirsi,

1 virtuosismo del vocabolo appropriato è qui messo

a dura prova. Il calzolaio trova forme e cuoio, il

sellaio trova mezzelune, quarelli, sellerine; il deco­

ratore trova spolveri, lo stuccatore modelli, l’orafo

pinze tonde, trapani, seghe ad archetto. Al «Balón »

il rebus è invertito. Non si tratta di trovare. Si tratta

di dimostrare di non trovare. Che è come dimostrare

l’assurdo.

.

L’operaio che ogni giorno traversa la città da un

capo all’altro per recarsi al lavoro, che è come dire

una ventina di chilometri, può trovare la moltiplica

o la gomma o il manubrio e i più disparati pezzi di

ricambio per la sua fida bicicletta.

Sn questo mercato il linguaggio è fiorito; il pie­

montese italianizzato meriterebbe un glossario. Le

contrattazioni hanno dello stupefacente. Per un’an­

fora, un libro, un tappeto od una casseruola, si sente

chiedere cinquanta lire, contro offrire pochi soldi, e,

salvo eccezioni, il contratto è fatto, magari con un

corollario di epiteti all’indirizzo dell’acquisitore già

lontano.

Nè mancano i pianeti della sorte, le canzonette

popolari con relative audizioni, gli organetti di stec-

chettiana memoria, battuti in breccia, poveri pianini

viandanti, dalle macchine parlanti.

E vi sono anche queste.

L’«arioso »dei

P ag liacci,

un brano della

Sem ira­

m ide,

l’inno di Mameli, la Canzone del Piave, un

valse di Strauss, deliziano gli orecchi alla folla.

Èmezzogiorno. Lo spiazzo si svuota a poco a poco.

Un fragore di ferraglie, un tramestio di assi, un cigo­

lare di carrettelle. Pare una figurazione in tono mi­

nore delle antiche migrazioni. Il profumo di soffritto

e i più tipici odori pandemii invadono il borgo

dalle vecchie osterie e dalle porte socchiuse dei

ballatoi.

Su ima delle ultime carrettelle vi è un vecchio

grammofono dalla voce stridula emetallica. La ragaz­

zaglia lo segue e schiamazza. La voce stentorea del

grammofono domina il brusìo. Forse, per vendicarsi

di non averlo ancora venduto, il «feramitt »ha messo

un disco in azione. Mentre s’allontana, l’imbuto rug­

ginoso diffonde le parole di una canzone popolare:

ma jugge la bellezza,

e la giovinezza non torna p iù

...

L’ha fatto apposta il vecchio rigattiere?

Pare la marcia funebre delle anticaglie.

TERESIO ROVERE

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