Table of Contents Table of Contents
Previous Page  494 / 1821 Next Page
Information
Show Menu
Previous Page 494 / 1821 Next Page
Page Background

TORINO AI TEMPI DEL VICARIATO

Torino e, in certe speciali epoche stabilite dalla

Chiesa, si facevano in loro onore feste ed onoranze.

Ogni anno veniva, con pompa solenne, fatta

all'Arcivescovo l’offerta del primo storione pescato.

Il pescatore, che pel primo aveva la ventura di

trarre nella sua rete uno storione, lo portava subito

alle autorità ecclesiastiche che provvedevano perchè

fosse recapitato all'Arcivescovo con la solennità

d’uso. L'usanza rispecchiava un’antica tradizione

dovuta a San Massimo.

San Massimo un giorno sedeva a tavola con un

collega e s ’era ripromessa una gran festa, perchè

dopo la consueta minestra, restava a consumarsi

un magnifico storione. Era un peccato di gola; ma

aveva un’attenuante, poiché lo splendido pesce gli

era stato regalato ed egli doveva dimostrare di avere

gradito il dono.

Allorché lo storione apparve in tavola, un servo

venne ad annunciare che alla porta un povero men­

dicante chiedeva di sfamarsi. San Massimo, dopo

un istante di riflessione e perplessione, prese una

decisione eroica: rinunciare allo storione per darlo

invece al povero affamato. Castigare la gola, e ridurla

a penitenza.

La decisione non tornò certamente gradita al­

l’ospite che già aveva adocchiato con avidità lo

splendido pesce e si sentiva venire l’acquolina in

bocca. San Massimo troncò ogni disputa, portando

il piatto al povero in attesa.

Il

mendicante sparuto, lacero, con un viso che

era bianco come latte, ringraziò con un cenno del

capo il Santo che gli offriva con un sorriso il cibo

prelibato; ma non appena il piatto collo storione

passò nelle sue mani, egli disparve come un visione.

Era un angelo che aveva messo a prova la carità

e l ’alto senso di fraterna pietà di San Massimo.

Questa la leggenda di cui corrono diverse ver­

sioni fra il popolino, e le madri la ricordavano ai

fanciulli, e le nonne la rammentavano ai nipoti,

quando il clero, in solenne funzione, recava all’Arci-

vescovo il leggendario storione.

Le passeggiate nei magnifici dintorni di Torino,

non erano trascurate, e quando s'affacciava l’estate,

le famiglie si recavano con canestri e provviste a

far merenda a Monte Giove che offriva comodità

di prati per adagiarsi mollemente; ombre di alberi,

e ai sommo del colle ove ora si erge la basilica di

Superga, una piacevole sosta ed un’incantevole vista.

Anche la Valle del Salice, così detta dall’esistenza

di un’antica cappella dedicata a S. Francesco di

Sales, era molto frequentata dalle famiglie torinesi

ed accoglieva raramente coppie di innamorati, perchè

sulle ragazze in modo speciale, veniva esercitata

dalle famiglie una sorveglianza gelosa.

Una non trascurabile attrattiva, specialmente

per i ragazzi, erano le «bataiole » che si facevano

oltre il bastione di San Solutore nei pressi attuali di

Porta Susa. Le «bataiole »a cui finivano di prendere

parte, ed anche con un certo accanimento, i giovani

bighelloni, degeneravano in vere zuffe ed avevano

provocati diversi editti di Carlo Emanuele III, intesi

a punire i promotori quanto gli incitatori; ma nè

le ammonizioni severe, nè le vergate che si sommini­

stravano, avevano raggiunto lo scopo di farle cessare

completamente.

L ’uso della fionda era allora divulgatissimo, ed

i giovani ne erano quasi tutti muniti ed ogni occa­

sione era buona per esercitarsi, malgrado il bando

che minacciava:

«Ogni persona la quale interverrà a fare pub­

bliche battagliole, tanto dentro che fuori della pre­

sente città, ed a gettare pietre in occasione delle

medesime ed anche solamente per le contrade con

fionde od in qualche altra maniera, sì di giorno che

di notte, oppure porterà in scarsella ad un tal fine

le stesse pietre, sarà castigato colla pena di un tratto

di corda ».

E i tratti di corda, lasciavano per tre giorni

buoni le ossa indolenzite, quando l’esecutore non

era tanto brutale, perchè poteva anche verificarsi

lo strappo di qualche arto.

Vigeva ancora il pedaggio per quelle spose che

attraversavano il Ponte sul Po, ed era stabilito in

12 tomesi; ma in compenso pagando con un sorriso,

e talvolta anche con qualche bacio gli esecutori

della giustizia, scendevano teorie di fanciulle bellis­

sime dalla collina per distrarsi a Torino. Esse vesti­

vano di chiaro, portavano, a festeggiare l’estate,

dei grandi cappelli di paglia inghirlandati di fiori

e la luce di giovinezza che brillava nei loro occhi,

pareva fugare le ombre che s’addensavano sulla

chiesa di San Domenico ove l’inquisizione perse­

guitava gli eretici ed eseguiva le sentenze.

S’avvicendavano in quei tempi, come del resto

in ogni paese del mondo, tristezze di guerre immi­

nenti e presagi di future carestie, a splendori di

corte ed a magnifiche feste.

La caccia era allora uno dei passatempi preferiti

dal Duca, e perchè essa fosse abbondante e degna

degli ospiti che spesso venivano alla corte torinese,

si avvelenavano dieci vacche vecchie e magre, che

divise in quarti si gettavano in pasto ai lupi, ai

cignali, perchè morissero, risparmiando così lepri,

volpi, faine, e tutta la selvaggina che il Duca amava

di trovare a portata della sua arma quando si get­

tava alla foresta seguito dai suoi cavalieri, dagli

ospiti regali e dai più nobili della città, a cui si

degnava di mandare l’invito.

Carlo Emanuele III non era molto amante della

poesia^e della letteratura, e per quanto la sua costi­

tuzione fisica non fosse tra le piò robuste, era, come

tutti i Savoia, uomo d’arme e lo provano i molti

combattimenti sostenuti per la fortuna del Pie­

monte.

Amante delle rappresentazioni teatrali, si recava

sovente al Regio, tanto più quando la messa in scena

si valeva dello stupendo ingegno del Galliari.

Era di indole mite e non aveva predilezione per

le cerimonie di corte. Torino aveva per il Duca un

grande rispetto ed un grande affetto, e più ne avrebbe

48