

MARIO LEONI E LA
"
LUISA D ’A S T
„
da sè, quando, povero scolaretto, infermo era stato
ospitato da un generoso dottore, nella cui casa esi
steva una biblioteca. Schiller, Kotzebue, Lessing,
«divorati » dal giovinetto, compresi solo in parte,
erano stati i suoi maestri, gli avevano impinzato la
testa di figure poetiche e smaglianti e di avventurose
vicende, destandogli il prepotente, irresistibile dè
mone dello scrivere.
Guarito, dovette guadagnarsi il pane, entrando
apprendista nel negozio di panni all’angolo di piazza
Palazzo di Città e via Milano,
che non abbandonò più, dive
nendone poi padrone. Ed alla
sera il piccolo
Giacólin,
cioè Gia
como Albertini, correva ad ap
prendere l’italiano ed il francese,
saturandosi di Dumas, Sand,
Balzac, Hugo, al punto da non
poter più vivere senza tracciare
anche lui il suo bravo romanzo,
assumendo anche un risonante
nome di battaglia, « Mar io
Leon i ». E cavandosela non
tanto male, a quanto pare, per
chè riusciva in breve ad assalire
le pagine della « Gazzetta di
Torino », con
II quinto cielo, I l
processo di un morto,
ed altri
romanzi storici, appena mediocri,
ma fantasiosi e promettenti.
Un giorno però volle tentare il teatro, compose
una parodia in versi martelliani del
Ruy Blas,
e,
senza rivelarsene autore, invitò ad assistere alla rap
presentazione i suoi principali, signori Golzio ed
Aymar, i quali, conosciuta poi la gherminella, stra
biliarono delle ignorate attitudini del loro com
messo.
Sempre in silenzio e tranquillo, prepara allora
un dramma,
I bancarótiè,
che, rappresentato dalla
Compagnia Gemelli nel 1871, segna un trionfo e,
quel che è più, procura un gruzzoletto ai principiante.
Aveva 23 anni ed ima formidabile volontà; inoltre
la via, la sua, era trovata. E vi camminò deciso e
spedito.
Luisa; Oh, spaciafómòo!; An nom ila lege;
I mal marià,
si seguono e piacciono. Poi viene
’L bibi,
il quale impressiona talmente, che si vuole
convertisse più d ’un bevitore accanito, come si dice
di
’L cótel
del Pietracqua, che avrebbe fatto buttar
via molti «
sacdgn
» ai barabba torinesi. Contempo
raneamente scriveva in italiano
Lo scarpino i i L iiia ,
premiato da ima rigorosa Commissione (Giacosa,
Chiaves, Graf) e
La forza irresistibile.
Era ormai noto, stimato, popolare; e nelle elezioni
comunali veniva eletto consigliere, passando come
i dotti mercatanti fiorentini dal fondaco al Palazzo
della Signoria. Nella amministrazione di Torino, ac
canto ad autorità come i Villa, Sambuy, Bruno,
Bizzozzero, portò per 25 anni la sua attività, la sua
genialità, senza punto invanirsi dei successi letterari,
senza abbandonare il suo bancone, se non per salire
nel prospiciente Municipio a cingere la sciarpa trico
lore ed a sposare qualche coppia impaziente.
Nel 1886 toccò il vertice della sua carriera tea
trale con gli anzidetti
I mal nutrì,
dramma sociale
a forti tinte e contrasti, condotto con bravura ecce
zionale, e rappresentato lungamente, anche in altri
dialetti, dal Rizzotto (siciliano) e dal Ferravilla (mi
lanese), ovunque entusiasmando.
E già la popolazione torinese aveva voluto mani
festargli la sua alta stima mandandolo alla Camera
dei deputati, come rappresen
tante del IH Collegio politico di
Torino nella 22» Legisl. (1894)
e rimandandolo nella susseguente.
E tutti se lo contendevano
e festeggiavano, financo la regina
Margherita, amatrice, come si sa,
del nostro dialetto, la quale lo
invitava spesso e gradiva le sue
visite nel Castello di Stupinigi.
Il
suo bagaglio letterario, co
la laboriosità che gli conosciamo,
si ingrandì a dismisura, e non
mette conto di trascriverne qui
un arido elenco: i più clamorosi
e salienti lavori li abbiamo no
minati e bastano per tutti.
Già maturo, ottenne un nuovo
successone con
La frev iè l in i,
tratteggiante l’ambiente dei « pe-
scicani » nel dopo-guerra, e con
La bela Gigógin,
vivido ed elettrizzante dramma patriottico delle
nostre guerre del Risorgimento; seguito da
La
trincea i ’i j bersagliò, Un gróp e na lingassa, L ’erbó
ila libertà,
lavorando, così, sino a ll’ultimo.
E nel maggio 1931 chiudeva i venerandi occhi,
tra il generai compianto ed il lutto delle scene pie
montesi, che perdevano con lui l'ultimo e convinto
assertore e campione della Musa subalpina ammae-
stratrice del popolo. Da se stesso si era eretto il
piedestallo e ne era divenuto una colonna.
Eppure, ripeto, finora nessun tangibile ricordo
gli venne consacrato, nessuna edizione, anche par
ziale, de’ suoi lavori è in vista, pur essendo egli uno
dei migliori figli di Torino.
Ma non mancò l’astigiano Marco Lessona di dedi
cargli una bella pagina nel suo libro
Volere i potere,
celebratore degli umili, saliti per merito proprio,
ad insperate altezze.
* * •
Il
presente dramma gli fu ispirato dalla lettur
delle forti ed emozionanti pagine di Carlo Leone
Grandi, astigiano, sulla
Storia iella repubblica i ’Asti
nel 1797,
cioè su quel tentativo di emanciparsi d a l- |
l'illiberale e pretesco governo piemontese, quando |
dalla Francia giungevano le fiammate libertarie, e §
finito miseramente, dopo soli 3 giorni, soffocato nel -
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(Scaliara Fan i)