

è lontana la trave a traliccio, che solo l’altro ieri
Schwedler c’insegnò a calcolare (2), dalla piatta-
banda del trilite primordiale, da quel trave paral
lelepipedo uniforme che ci accompagna dai primi
evi; quasi pare all’intuizione che il farlo perfetto
basti la sezione rettangolare: alto e stretto; eppure
la sezione all’appoggio è sproporzionata a quella
di mezzeria, la zona superiore compressa è enor
memente esuberante al confronto di quella infe
riore scarsa e di mal propria natura per resistere
alla tensione; nemmeno la trave a doppio T ci
soddisfa e nemmeno quella a traliccio della fuso
liera dell’aliante. Il cemento armato, o simile ar
gomento più o meno plastico trattato come sarebbe
oggi praticamente follia di calcolo e di esecuzione,
ossia come scheletro iperstatico e a sezioni di
ugual resistenza comincerebbe a soddisfarci nelle
sue nuove e pur ancora
naturali
armonie iniziali.
E di qui possiamo ascendere senza deliquio ai
felici campi della profezia del volgere fatale di un
gusto; e non si paventi che poesia divenga scienza,
chè l’abisso tra il ritmo e l’incanto rimarrà sempre
invalicabile al razionale.
Una struttura rispondente perfetta alle solleci
tazioni
insieme dalla fantasia comandate,
dove la
materia gradatamente cangiasse forma e natura,
ora disposta in archi e cupole intersecantesi e
resistenti alla compressione in quelle necessarie
direzioni e ora, nel trapasso insensibile alla ten
sione si riducesse dolce nelle zone neutre alla
trasparenza alveolare di un nulla per ritornare me
tamorfosata in fasci di tendini elastici e tesi a se
guire gli armoniosi itinerari delle linee isostatiche;
una struttura viva che cangiasse volto e traspa
renza e trascolori anche nel tempo al variare delle
sollecitazioni,
ma opera dell’umano e una con la
fantasia.
A questa profezia dell’ultima Thule della
costruzione c’invita Antonelli mentre finalmente
usciamo a rivedere le stelle all’ultimo poggio della
cuspide (122 metri) dopo l’ascesa su per le spire
in quel viaggio dantesco nel cuore, inaspettato in
tanto fervore, della basilica di S. Gaudenzio, persi
nella vertigine, fra l’intrico immane degli archi
fragili, tra il guscio dell’esterna cupola (12 centi-
metri di spessore) e le cinque interne forate e
sovrapposte in prospettica fuga.
Sui quattro piloni, all’incrocio delle navi della
esistente basilica, Antonelli subito inizia la sua
mirabile acrobazia: i quattro nuovi arconi indi-
pendenti da quelli del sistema primitivo del Pel
legrino, sono archi non solo in prospetto ma anche
in pianta, intesi a contrastare perfetti, e con loro
resi omogenei, la spinta dei pennacchi sollecitati dal
tamburo e infine a ben disponi all’imposta sull’ob
bligata struttura preesistente. Altri quattro arami
sovrastano i primi a determinare una secondi co
rona aroolare e sui tre giri concentrici di colonne
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r
« _______M - j - _ j ; - * * * . « . l :
poggianti in definitiva sul cervello oegu otto areni
comincia un complesso e
audace ragionare in lucida
febbre tra archi e spinte,
carichi e fulcri. E venti-
quattro di questi ultimi sor
geranno d’urgenza in pila
stri a costituire il gigantesco
castello conico traforato a
giorno in archi dritti e ro
vesci e racchiudente quat
tro cupole forate (troppo
poco, in verità) a far da
sfondi successivi al grande
occhio circolare della prima
maggiore impostata sui pi
lastri interni del secondo
p e r is t ilio : queste cupole
quasi volanti nel cono « per
magistero di resistenza a-
dempiono all’ufficio dei nodi
0 diaframmi nelle canne del
fusto di molti vegetali » (
3
).
1 ventiquattro pilastri ri
dotti a otto al vertice del
gran cono si
sconoaauta,a leggeteil cu—
«a.