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verdiano — ha battuto alla porta, ineso­

rabile, spietato!...

Costretto a scrivere, per impegni assunti,

una seconda opera, vuoisi sfortuna che essa

dovesse esser di carattere comico. Il fato cru­

dele di Rigoletto (nasconder nel ridere le

lacrime cocenti) egli lo vive nella vita vera,

prima ancora che nella sublime finzione del­

l'arte, nella quale, dopo, trasfonderà pure

e le gioie e i dolori suoi. E l’opera «

Un giorno

di regno

», cade clamorosamente su quelle

scene, che avevano salutato l'esordiente come

una sicura promessa.

Verdi rimane come inebetito. Si ritrae, non

vuole più vedere nessuno. Al teatro darà un

addio... Ma un buon angelo veglia su di lui:

l'impresario Merelli, librettista egli pure e in

fondo anche artista. Incontrato per una via

di Milano, una sera dell'inverno del 1840,

l'accigliato maestro, lo rimprovera pel suo

silenzio e gli fa scorrere nella tasca del sopra­

bito il libretto del «

Nabucco

», che il Nicolai

aveva rifiutato.

Una forza occulta induce il maestro rilut­

tante. Torna a Busseto; apre una pagina a

caso: è il coro «

Va pensiero sull'ali dorate

»:

versi tutt’ altro che banali. Si pone al piano­

forte e come per ispirazione divina, la bella

melodia gli sgorga di getto dalTanimo.

Verdi si sente rinascere alla vita. La sua

forte fibra reagisce e disperatamente si pone

al lavoro. Ne lo incoraggia Giuseppina Strep-

poni, il famoso soprano che per prima inter­

preterà l'opera, colei che diventerà poi la

sua seconda moglie, la fedele compagna alla

quale il Maestro sopravviverà di pochissimi

anni soltanto.

In tre mesi l’opera è finita, è accettata nel

programma del teatro alla Scala, e già alle

prove i sintomi del successo si profilano. Un

fremito invade gli interpreti, presi dal vigore di

quella giovanile partitura che sembra inabis­

sare tutto il repertorio passato. Il classico

linguaggio rossiniano, le melodie di Bellini

e lo stesso patetico ed il tenero di Donizetti,

sembrano sfiorire dinnanzi a questa creazione

dinamica per eccellenza, fremente di calore

e di vitalità.

Verdi, negli ultimi anni della vecchiaia,

ricorderà

ancora la memorabile serata, il

subisso

di acclamazioni. Era la forza del­

l'Italia nuova, dell’Italia eroica, che s’appa­

recchiava in segreto coll’animo teso e sentiva

che

il melodramma verdiano non era diverti­

mento di sfaccendati, ma passione ed azione

nel tempo stesso. Ed oggi ancora, nell'ascoltare

la sinfonia con quei motivi taglienti, ma densi

di pathos, noi pur così lontani da quei tempi,

ne comprendiamo l’ansito e la innata energia.

C’erano, del vesto, latenti o manifesti, i ca­

ratteri peculiari dello stile verdiano: l’impeto.

La prima spinetta di Vardi

la forza, la logica, l’incisività della frase, la

verbalità del recitativo. Stilemi elementari,

qualche volta banali se volete, ma non mai

inconcludenti o vuoti di significato. C’era il

ritmo, fattore fisico essenziale, determinante,

che fa sussultare la melodia e che ne costi­

tuisce i sangli, la rete nervosa. Infatti — e

qui ci si consenta una parentesi — come

potrebbesi sup^ .tt la cabaletta «

di quella

pira

» del «

Trovatore

», senza accompagna­

mento? QueH’accompagnamento così fervido

e che fa parte integrante dello spirito della

frase medesima? Come, non solo « accompa­

gnamento », è l’accanirsi dei violini nella scena

di Rigoletto, all’invettiva «

cortigiani

,

vii razza

dannata

», e nel lamentoso ammansarsi del­

l’orchestra quando il buffone piange e si

dispera invocando la figlia. Verdi, genio melo­

dico per eccellenza, sosteneva tuttavia, egli

per primo, che l’uomo di teatro deve saper

fare a meno della melodia quando la circo­

stanza lo richiede. Il massimo dell’efficacia

col minimo dei mezzi. Il declamato non sol­

tanto, ma addirittura la sola recitazione, come

nella lettura della lettera, quando Violetta

parla in sommesso melologo, mentre i violini

— su negli acuti — scandono mestamente

la melodia d’amore di Alfiredo: momento

ultra commovente, che fa oggi ancora scen­

dere una lacrima incontenibile dagli occhi di

chiunque abbia un cuore.

C’era in sostanza l’immediata comunica­

tiva fin dalle prime manifestazioni della sua

esuberante giovinezza, quella comunicativa

che

è

la caratteristica del genio, del genio la

cui manifestazione è scintilla della divinità,

sublime tratto d’unione tra Dio e l’uomo.

La censura austriaca sospettosissima, vigi­

lava, perchè nel bardo italiano presentiva un

nemico implacabile. E non ne aveva torto.

Inflitti i canti verdiani non tardarono ad

assumere nell’animo degli Italiani un agni*

ficato politico, tanta era l’aderenza ^ ritu a le

che essi avevano con

Sopratutto nella